La vita è bella 1998
La domanda è di quelle che tolgono il sonno: “si può narrare l’inenarrabile?”, “PUò chi non è sceso all’inferno, raccontarlo?”, «Si può osare inoltrarsi con la finzione nel sacrario dell’inesprimibile?”; in poche parole, apuò chi non è stato testimone raccontare Auschwitz e lo sterminio?”.
Chi ha visto il film «La vita è bella» o ne ha letto la sceneggiatura di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami (Einaudi, Torino, 1998) si sarà maledettamente complicato le idee, avrà aumentato i propri dubbi; ma non avrà potuto fare a meno di sentirsi sconcertato e scombussolato, non avrà potuto fare a meno di riflettere.
In questo sta la forza comunicativa della «favola” proposta dagli autori: ti costringe a ridere e a piangere e ancora a ridere, ma non ti lascia vie d’uscita; non puoi fingere con te stesso, quella storia
riguarda anche te, la tua normalità, la tua coscienza.
Forse, per raccontare l’irraccontabile, per dirlo a chi non sa, non vuoi sapere, a coloro ai quali non è dato conoscere, ai giovani soprattutto, non si può che entrare nell’universo fiabesco, usare la chiave
delle metafore, per aprire i cuori e aiutare il cervello.