Davanti al dolore degli altri 2004
La storia delle immagini di guerra ci insegna, secondo Susan Sontag, che la guerra è stata combattuta attraverso le immagini fin dal lontano passato, a colpi di nascondimenti e di esposizioni; e ancor più nel Novecento, con nuovi mezzi come la fotografia e i filmati. Nessuno di noi può dimenticare le foto dei campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale, dei legionari della Guerra di Spagna, della devastazione del ghetto di Varsavia, dei partigiani appesi a forche improvvisate; e poi il fungo nucleare sopra Hiroshima e Nagasaki, i villaggi del Vietnam in fiamme, lo stadio di Santiago de Chile, i profughi ruandesi in fuga, le fosse di Srebrenica, la caduta delle Torri l’11 settembre, i torturati di Abu Ghraib alla periferia di Baghdad, le decapitazioni su Al Jazeera: sono state le fotografie a documentare gli orrori del Novecento, il suo “cuore di tenebra”. E non sono stati soltanto i carnefici a scattare queste immagini, ma anche giornalisti che hanno rischiato la vita per mostrarci il lato oscuro dell’umanità, quello che non avremmo voluto mai vedere né sentirci raccontare.
Immagini solo apparentemente tutte uguali. In realtà le foto dei nazisti impettiti nelle loro divise sopra pile di cadaveri di soldati polacchi raccontano il carattere “ufficiale” e governativo di quella macabra esibizione; le teste dei vietcong uccisi a cui i marines infilavano in bocca una sigaretta accesa danno l’idea di una sinistra gara di trofei privati di guerra; le immagini dei morti durante le guerre coloniali (penso alla testa del ribelle Hailù Chebbedè esibita in una scatola di latta di biscotti Lazzaroni per conto del vicerè d’Etiopia, Graziani) sono più chiaramente ispirate dalla derisione razziale nei confronti delle vittime; e, invece, le foto delle decapitazioni degli ostaggi in Iraq sono lo strumento di un ricatto. Insomma, una stessa pratica, quella fotografica, ricollegata a strategie del tutto diverse, che sfidano lo storico – e lo scrittore – a scoprire le intenzioni di chi ha messo in posa quei cadaveri e ha ritratto o sceneggiato quell’orrore. Sfida che Susan Sontag raccoglie, obbligandosi alla razionalità e al rigore conoscitivo.
Ci ha molto colpito come la scrittrice analizza la guerra come spettacolo e le responsabilità di chi crede di essere soltanto un “innocente” spettatore, impotente di fronte ai massacri che quotidianamente avvengono. E, nella polemica se un mondo in cui le opinioni si formano sulle immagini di morte sia portato a indignarsi sempre di meno e a rimuovere l’orrore di oggi per far posto a quello di domani, oppure se la visione della crudeltà della guerra possa sollecitare una vera indignazione, ci è piaciuta la risposta decisa di Susan Sontag col suo invito a non chiudere gli occhi e a riflettere su quanto ci viene mostrato.
Premiamo dunque in questo libro un forte richiamo contro ogni forma di superficialità, ignoranza o amnesia.